Nella sua consueta rubrica settimanale su Facebook, “Taccuino biancoceleste”, Arturo Diaconale, responsabile della comunicazione della SS Lazio, fa il punto sull’attuale situazione di stallo che investe inevitabilmente anche il calcio italiano:

“Panem et circenses”. Nelle sue satire Giovenale denunciava la tendenza dei potenti della sua epoca (e di quelle precedenti) a cercare di conquistare il consenso delle masse urbane distribuendo cibo gratis e organizzando spettacoli, spesso sanguinosi, nelle arene dei circhi costruiti allo scopo.

Da quei tempi ad oggi la formula del “panem et circenses” è stata sempre usata per mettere in luce le operazioni di distrazione di massa compiute dai governi per distogliere i cittadini del proprio Paese dai problemi reali ed indirizzare le loro attenzioni verso questioni illusorie e marginali.

Tra le tante attività sportive quella che più di ogni altra è stata caricata di questo significato negativo è sicuramente il calcio. Per la verità anche il ciclismo, almeno in Italia, ha svolto una funzione distrattiva. Per anni si è detto che la vittoria di Gino Bartali al Tour de France distolse i militanti del Pci dal riaccendere la guerra civile dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. Ma quando si tira in ballo Giovenale ed il suo “panem et circenses” ci si riferisce sempre al calcio ed alla sua capacità di accendere o placare l’emotività delle masse dei tifosi. Al punto che è diventato addirittura un luogo comune attribuire una specifica funzione sociale allo sport che più di ogni altro è diventato la massima industria dello spettacolo.

Durante gli anni del fascismo la costruzione degli stadi e la vittoria dei mondiali nel ’34 e nel ’38 vennero considerati strumenti indispensabili per la fabbrica del consenso del regime. E nell’Italia del dopoguerra democratico e repubblicano il 4-3 con la Germania nei mondiali del 1970 ed il titolo mondiale del 1982 divennero fattori potentissimi di riscoperta del tricolore e di risveglio dell’orgoglio nazionale.
Questa funzione sociale rimane intatta anche in tempi di coronavirus. Di sicuro l’interruzione dei campionati, da quelli professionistici a quelli dei giovani dilettanti, è servita a dimostrare all’opinione pubblica del Paese lo stato di gravissima emergenza in cui la pandemia ha posto l’intera penisola. Naturalmente il provvedimento di blocco ha avuto come giustificazione principale la necessità di frenare i contagi impedendo gli assembramenti negli stadi. Ma accanto a questa ragione oggettiva c’è stata anche quella di convincere gli italiani che è arrivato il momento delle grandi rinunce e dei grandi sacrifici. Così come il blocco del calcio è servito a dare la dimensione concreta dell’emergenza, la sua ripresa diventerà inevitabilmente il segno che il ritorno alla normalità non è affatto impossibile.

Chi pensa che ipotizzare la ripresa dei campionati sia un attentato alla salute pubblica non tiene conto che accanto alla salute fisica dei giocatori e dei tifosi c’è anche la loro salute mentale da tutelare e, soprattutto, c’è da preservare la salute economica di un settore che rischia di essere devastato in maniera indelebile dall’emergenza coronavirus. Senza riapertura dei campionati le perdite del settore, da distribuire tra tutte le società, potrebbero superare il mezzo miliardo di euro. Qualcuno si augura che questo disastro si realizzi nella convinzione che una volta estirpato il dio denaro il mondo del calcio diventi di colpo virtuoso. Ma non è mai successo che i fallimenti a raffica abbiano provocato palingenesi salutari. Normalmente i fallimenti provocano delusioni, disoccupazione e, con la fine del panem e dei circenses, anche l’esaurirsi della funzione sociale di uno sport che è diventato anche industria dello spettacolo.

Sperare nel ritorno alla normalità, quindi, non è una forma di egoismo di bottega ma un segnale di buon senso e di ottimismo. Di vittoria sulla pandemia. Ma per tornare alla normalità bisogna volerla e cercare di ricrearla, magari con la ripresa degli allenamenti ma sempre nella garanzia assoluta della salute dei giocatori e del pubblico. Chi non la vuole pensa che il perdurare dell’emergenza anomala lo possa favorire. Come i pescecani delle guerre passate che si arricchivano mentre gli altri morivano! Per frenare i loro egoismi non c’è che da ribadire l’assoluta necessità di portare a termine i campionati per scongiurare i fallimenti e trovare una intesa tra le società sulla data possibile della ripresa dando così un segnale di speranza ad un Paese che ha assoluto bisogno di tornare a vivere in un clima più sereno e meno paranoico di quello presente.

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